Lettera a me stessa nell’epoca del #iorestoacasa

Oggi scrivo a te Serena, a quella che eri prima dell’epoca del #iorestoacasa, prima che il Governo di questo Paese, e piano piano anche gli altri, decidessero che tutti dobbiamo restare a casa perché fuori si combatte una guerra terribile con un virus che non dà scampo né tregua. È il coronavirus, un nemico che usa noi come arma, il nostro corpo e la nostra vicinanza sociale. Si può combattere solo se ognuno si isola dagli altri e così si cerca di restare il più possibile chiusi in casa. home (2)-min

Io sono a casa dal 12 di marzo, ma fuori la tempesta era già feroce e silenziosa da giorni, è un inferno che imperversa ormai in tutto il mondo e si accanisce in particolare qui a Bergamo, fuori da queste finestre. Ora non facciamo che pregare e sperare che passi presto, perché la preghiera e la speranza sono le uniche cose che ci fanno resistere nella tempesta più forte e dolorosa vissuto finora da molti, inclusa me. E a te, Serena, voglio scrivere di come le cose in poco tempo sono cambiate.

Tu ti alzavi la mattina alle cinque e mezzo e uscivi alle sei e venti per rincorrere due bus e una metropolitana, sperando di arrivare a Milano e timbrare in ufficio alle otto. Quei mezzi d’improvviso si sono svuotati, e così anche le strade e io a Milano da inizio marzo riuscivo ad arrivarci anche alle sette e mezzo, nonostante il #milanononsiferma. Ma il clima non era quello rilassato che potevi vedere tu ad agosto o nel periodo di Natale. I primi di marzo le scuole sono state chiuse e insieme ad esse tante attività e la mattina sui mezzi eravamo in pochissimi e ogni giorno sempre meno. Stavamo seduti equidistanti, avvolti in un silenzio riempito da nuvole di alcool o disinfettante. Gli occhi sembravano tutti uguali, più grandi e più lucidi, sopra quel tappo bianco schiacciato tra il naso e il mento, quella mascherina che ormai abbiamo tutti e anch’io quando esco di casa solo per andare a fare la spesa.

Tu non vedevi l’ora di tornare a casa dopo il lavoro. Poche volte ti sei fermata a Milano per visitare una mostra o fare un giro di vetrine in Corso Buenos Aires. Volevi essere a casa il prima possibile per metterti in tuta a scrivere, leggere, guardare un film, ascoltare la radio a tutto volume e cucinare qualcosa di buono. Oggi, io mi alzo alle sette e sto in pigiama almeno fino alle dieci e potrei starci tutto il giorno. La casa adesso è l’ufficio, la chiesa, la palestra, il cinema e il ristorante. Una di queste sere mi sono fatta portare un hamburger da uno dei pochi ristoranti rimasti aperti con la scritta solo consegna a domicilio. Ma poi mi è passata la voglia.  mascherina

Tu, appena potevi, organizzavi una fuga, un viaggio da sola. Avevi già prenotato per un weekend in Svizzera e uno a Vienna e il sabato ti alzavi alle sei per andare a camminare nella neve sul Monte Pora. Io, ora, ho cancellato le prenotazioni e il Monte Pora lo guardo ogni tanto dalle webcam, ma non ho più voglia di fuggire. Sento più che mai che il mio posto è qui, a fare il mio dovere e a pregare e piangere con la mia città, ferita da strappi troppo dolorosi.

A Bergamo ogni giorno muoiono almeno cento persone e a volte anche molte di più. Le salme si sono accumulate talmente in fretta che i camion dell’esercito le portano via, in altre città, per la cremazione. Chi sta male per questo virus, dicono soffra molto, perché ti fa mancare l’ossigeno, puoi finire in terapia intensiva e se sopravvivi non ti molla facilmente, devi lottare contro di lui, dicono per circa un mese. Chi cura deve sopportare un enorme peso perché non può fermarsi, i malati sono troppi e medici e infermieri rischiano di più il contatto con il virus e alcuni muoiono, come è già successo. Gli ospedali non ce la fanno, c’è chi viene curato in alberghi convertiti a lungodegenza e sono arrivati medici persino dalla Russia per aiutarci. In poco più di una settimana hanno costruito un ospedale da campo nei capannoni della Fiera.

Il deserto della città è attraversato in alcuni giorni dalla lentezza dei cortei dei mezzi militari e lo è in continuazione dalle corse delle ambulanze. Nei momenti di tregua si inseriscono gli altoparlanti delle jeep della protezione civile che urlano state a casa. A Bergamo le autorità lanciano appelli e hanno le lacrime agli occhi, ma non smettono mai di lavorare, organizzare, chiedere aiuto. Bergamo va avanti perché non può mollare: #Molamia.

Tu, su questo blog fino a febbraio, sei sempre riuscita nell’obiettivo di pubblicare quattro post al mese. Stavi lavorando anche quest’anno ai libri del Premio Bergamo per partecipare, a tuo modo con le recensioni, ad uno dei più importanti eventi letterari della tua città. Io sono riuscita a portare a termine l’ultima recensione qualche giorno fa, ma i post di marzo sono soltanto tre e a chiudere il mese è questa strana lettera, che certo non avevi previsto nel calendario editoriale. Ho dovuto rallentare perché in questi giorni trovare la giusta concentrazione per leggere e scrivere è stato faticoso e a volte impossibile.

Eppure in questo periodo di attesa e di resilienza, quel che mi sta aiutando, oltre alla preghiera e la speranza, è proprio ciò che leggere, scrivere, viaggiare da sola, essere a dieta e camminare mi hanno insegnato. Se non ci fossero state queste cose, credo avrei rischiato di infilarmi in un tunnel sempre più buio e più lungo, e invece, riuscire a fare tesoro di me stessa mi sta aiutando ora più che mai a non disperare. andra tutto bene arcobaleno

In questo post ho pensato di scrivere a te, Serena, a quella che eri prima dell’epoca del #iorestoacasa, per dirti che sono fortunata perché per noi comunque non è cambiato molto. Ogni giorno mi alzo, prego, scrivo sul mio diario, lavoro, leggo e cucino. Tre volte a settimana vado in palestra, ovvero cammino per seimila passi tra i garage e le scale del condominio. E come prima, un giorno a settimana vado a fare la spesa e un altro lo dedico alle lavatrici e alle pulizie di casa. La domenica non pranzo più con la mia famiglia, ma so che stiamo tutti bene ed essere ognuno a casa propria per un po’ ci tiene al riparo da questa tempesta.

Ho disegnato anch’io un arcobaleno con scritto andrà tutto bene e ci ho aggiunto forza Bergamo, poi ho preso lo scotch e l’ho attaccato fuori dalla porta di casa. Ora ogni giorno guardo il tg su Bergamo TV e ogni domenica la messa, e spesso piango, anche quando la sera la radio mette una canzone come Purple Rain o High and dry e a me viene da aprire la finestra e dedicarla a chi là fuori sta lottando per vincere questa guerra. Ma il giorno dopo mi alzo e ci riprovo. Perché se chi lotta là fuori non può arrendersi, non vedo perché io debba lasciarmi andare, io che l’unica cosa che posso e devo fare è pregare e aspettare, continuando a fare quel che ho sempre fatto tutti i giorni, stando semplicemente a casa.

E credo che solo così io possa aiutare questa città a vincere questa guerra e a non mollare.
Forza Bergamo, io resto a casa e tu non mollare, molamia!

© Riproduzione riservata – Immagini de La Sere

Lettera a me stessa nell’epoca del #iorestoacasaultima modifica: 2020-03-29T22:19:34+02:00da lesenedelase
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