I colori dell’attesa

Te ne sei andata stamattina, salutandomi con il solito bacio frettoloso e la solita frase “ci vediamo stasera, passa una buona giornata”.

Telefono spento.

attesa

Io invece sono ancora qui che provo a chiamarti e continuo a rileggere la lettera che hai lasciato attaccata sul frigo, un elenco di attese che penzolava dal piccolo magnete del nostro ultimo viaggio.

Telefono spento.

Tutte le tue attese, ognuna col suo colore, scritte su un pezzo di carta, attaccato sul frigo. Un elenco di attese che si chiude con “non chiamarmi oggi, ci vediamo stasera!” e il tuo telefono da allora è spento.

Non pensavo si potesse restare in attesa di una persona vivendo con lei. Non pensavo che la presenza potesse generare assenza. E tanto meno che il dialogo di ogni giorno potesse seppellire nel silenzio le parole, quelle vere, quelle importanti.

Ma in fondo è vero, se tu mi avessi parlato di una soltanto di queste attese, non l’avrei sentita così come la vedo ora che l’ho letta su un pezzo di carta. Ora che tu hai dato un nome ad ogni attesa e insieme un colore, scritto con una delle tue matite colorate. Ora che io ti cerco e tu non ci sei.

Sarebbe stata una delle nostre solite discussioni, in cui ognuno urla addosso all’altro tutto quel che dentro e fuori non sopporta, ma usa parole e scuse che non riguardano mai veramente noi. Tu che non ti dai pace al pensiero che in ufficio hai un capo che più fai e più ti chiede, e io, io che sono sempre preoccupato per lo studio e per quanto sia difficile mandarlo avanti finché non trovo un nuovo socio.

Se penso a noi, Virginia, a me e te, mi accorgo che non ci siamo da un po’ di tempo, noi siamo stati seppelliti, tu dietro ai tuoi isterici “tu non capisci, è stata una giornata infernale…” e io nei miei secchi “succede anche a me, che ci vuoi fare, ora che abbiamo il mutuo di una casa più grande”.

Facciamo discorsi che si sovrappongono come mattoni di un muro storto che resta in bilico. Dietro alle nostre mitragliatrici e i nostri scudi, parliamo per alzare baluardi in cui ricreare il teatrino che viviamo ogni giorno ognuno nella sua realtà. E noi? E’ peggio del silenzio, è come scavare un fossato che si riempie di nebbia. E adesso capisco il tuo scivolare via da ogni discussione in silenzio. E quel giallo che per te è il colore dell’attesa dell’ascolto.

Eppure ne passiamo di tempo insieme, la sera a casa o al ristorante, il weekend al lago con i nostri amici, o dai tuoi in campagna. Ma non siamo più noi. Ci sbricioliamo nei preparativi, nei programmi, nelle corse in macchina, nelle cose da fare e alla fine ci mescoliamo agli altri finché siamo stanchi e poi si fa l’ora di tornare ognuno alla sua realtà, al suo teatrino di tutti i giorni. Adesso capisco il tuo avvolgerti in un guscio quando sei a letto e fingi di dormire e io resto fermo ad osservarti nel buio finché non crollo nel sonno. E questo è per te il rosso, il colore dell’attesa di un rifugio.

Ma l’attesa a cui non penso da tempo è quella blu, l’attesa del nostro orizzonte. Abbiamo fatto tanti sacrifici per poter vivere in questa casa, eppure non c’è mai stata una sera in cui ci siamo seduti in veranda a guardare il tramonto e a dirci noi, insieme, andando incontro alla vita, che strada vogliamo prendere.

Con questo biglietto in mano, con questo elenco di colori e di attese, penso che ti sei dimenticata di un’attesa per te importante, quella che forse ti rende sopportabili tutte le altre. È l’attesa bianca quella che ti aspetta nelle notti in cui mi sveglio e nel letto non ci sei e allora mi affaccio alla porta dello studio e sei lì che scrivi, di te e credo anche di noi.

Forse è da lì che dovremmo ricominciare.

Il telefono squilla:
– “Virginia?”
– “…sì…”
– “Virginia, torna a casa!”

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I colori dell’attesaultima modifica: 2019-11-23T16:55:50+01:00da lesenedelase
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